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La linea di “Magic Mushroom” è impressionante: gli ultimi 400 metri della via seguono un sistema di diedri liscissimi che a prima vista sembrerebbero impossibili da scalare; per superarli serve una buona dose di agilità e “creatività corporea”.
Stati Uniti
Bigwall
Magic Mushroom
El Capitan
900 m
5.14a
Tommy Caldwell e Justen Sjong (2008)
-
Non avevo mai investivo così tante energie in una via prima di quel momento. Per salirla è servito un intenso lavoro di introspezione.
Se dopo la salita di “El Nino" ero intenzionato a tornare nuovamente a Yosemite, la riuscita di “Zodiac” aveva reso “The Valley” una meta fissa sul calendario. Da allora, ogni anno prolungo il soggiorno al parco di una settimana, e rincasare mi pesa sempre di più. “Zodiac” aveva alimentato in me il desiderio di alzare l’asticella a “El Cap” e per farlo avrei dovuto individuare un progetto su cui investire tutte le mie energie, rendendomi disponibile a tornare più volte per provarlo.
“Magic Mushroom” poteva fare al caso mio, mi ispirava da tempo: sul web le informazioni a riguardo scarseggiavano, ma veniva comunque indicata come la seconda via più dura di El Cap, dopo “Dawn Wall”. L’impresa sarebbe potuta rivelarsi fuori dalla mia portata, ma la curiosità mi spingeva oltre. Tuttavia, siccome Babsi (Barbara Zangerl n.d.r.) puntava a salire “The Nose”, la via simbolo della parete, che affascinava anche me, ci eravamo ripromessi di scegliere il nostro obiettivo in loco, tenendo presente che solitamente “The Nose” è molto trafficata (conta circa 600-700 tentativi, in artificiale, a stagione).
Come ogni ottobre il parco era gremito di turisti e arrampicatori. Su El Cap si intravedevano decine di cordate e “The Nose” era la più affollata: un giorno su di essa abbiamo addirittura contato sedici cordate. Era impensabile tentare di salirla in libera, così, con mia grande gioia, abbiamo ripiegato su “Magic Mushroom”.
Normalmente la via viene ripetuta al massimo due o tre volte (in artificiale) a stagione, e al nostro arrivo era sgombra. Come per “Zodiac”, saremmo saliti dal basso senza pre-ispezionare la via dall’alto, restando più giorni in parete e fissando delle statiche per lavorare i singoli tiri.
La versione in libera condivide i primi cinque tiri con “Muir Wall”, una via molto ripetuta, che abbiamo superato facilmente, anche se il caldo ci ha costretti a scalare di notte. Le reali complicazioni sono giunte al punto in cui la linea della versione in libera si ricongiunge con quella, originale, in artificiale: erba e terra riempivano le fessure, rendendole inutilizzabili. Per ripulirle è servito parecchio tempo: a volte trascorrevamo intere giornate a spazzolare, senza nemmeno infilare le scarpette; e sui tiri successivi la situazione non era migliore.
La seconda parte, invece, maggiormente strapiombante, era più pulita; le fessure, quasi inesistenti, avevano lasciato spazio a una serie di diedri impressionanti e liscissimi: 400 metri con tiri compresi tra l’8a e l’8b+, che per essere superati richiedevano molta creatività. Il più delle volte bisognava spingere su appoggi e appigli inesistenti, individuabili esclusivamente strisciando la mano lungo la parete alla ricerca di qualche asperità, un po’ come leggere il braille. Per decifrare le sequenze esatte sono servite giornate intere, impensieriti, nel mentre, dal fatto che alcuni tiri erano protetti solamente con copperheads e altri solo con beaks; ma ce l’abbiamo fatta comunque, arrivando in cima.
Prima di effettuare il nostro, unico, tentativo dal basso, abbiamo meccanizzato meglio alcuni movimenti calandoci dall’alto, approfittando per lasciare un po’ di materiale in parete. Ancora una volta avremmo scalato di notte e ci saremmo riposati di giorno.
L’obiettivo della prima giornata era raggiungere la grande cengia, subito dopo i primi dieci tiri (tre dei quali superavano già l’8a), dove avremmo dormito. Molti erano bagnati e il sole scottava, ma abbiamo rispettato il programma. Il secondo giorno siamo arrivati al diciannovesimo tiro, dove avevamo lasciato il portaledge; da lì eravamo consapevoli che avremmo rallentato notevolmente perché sarebbero iniziati i tiri chiave. Complice anche il meteo, incredibilmente stabile e secco, all’undicesimo giorno ci siamo ritrovati in cima a “Magic Mushroom”.
Io e Babsi avevamo salito tutti i tiri dal 7c in poi da capocordata, alternandoci su quelli più semplici. Era la prima volta che destinavamo così tante energie in un progetto, e se il sogno si è concretizzato è stato anche grazie a un intenso lavoro di introspezione. Questa via ci ha dimostrato, ancora una volta, quanto la perseveranza, lo spirito di squadra e la determinazione possano trasformare l’impossibile in possibile.