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Il parco nazionale di Yosemite è una vera mecca per gli amanti delle “bigwall”: salire in libera El Capitan è sempre stato uno dei miei sogni più grandi.
Stati Uniti
Bigwall
El Niño
El Capitan
800 m
5.13b
Alexander e Thomas Huber (1998)
-
Vivere otto giorni in parete è stata un’esperienza stupenda. Il caos della valle, dal portaledge, diventa un ricordo remoto; sembra di stare dentro a una bolla in cui regna la tranquillità.
A meno di un anno di distanza dalla salita di “El Niño”, che aveva fatto comprendere a me e a Babsi (Barbara Zangerl n.d.r.) il fascino di arrampicare in libera pareti così imponenti, ci siamo ritrovati di nuovo alla base di El Cap. A ottobre la valle brulica di turisti e arrampicatori, rendendo la vita in parete molto meno isolata del solito. Siccome volevamo godere al massimo dello splendore di quel luogo, concentrandoci sull’arrampicata, e senza metterci in coda, o litigare, per una salita, abbiamo rinunciato alle vie in programma, perché troppo affollate, cambiando obiettivo. Prima di partire avevo visto diverse fotografie della variante in libera della celebre “Zodiac”, e la linea sembrava veramente stupenda. Non ne avevo sentito parlare spesso, quindi pensavo fosse meno bazzicata delle altre vie, ma ignoravo completamente che la sua unica ripetizione, in quindici anni, fosse stata ad opera del celebre Tommy Caldwell.
La scoperta ci aveva intimoriti ma incuriositi allo stesso tempo, così abbiamo deciso di provarla. Consapevoli delle elevate difficoltà, abbiamo scartato l’opzione di una salita ground up in un unico push. Non volevamo pre-ispezionare la via calandoci dall’alto, ma saremmo saliti dal basso, aiutandoci con delle corde fisse per lavorare i tiri, e una volta individuate le soluzioni per le varie lunghezze, avremmo effettuato un tentativo vero e proprio dal basso.
A eccezione di un tiro gradato 7c+ (protetto da copperheads), la prima parte non è difficilissima; tuttavia, essendo pensata per l’artificiale, scalando in libera le protezioni spesso risultano pessime: le fessure sono troppo sottili per essere assicurate con friends o nuts e bisogna ricorrere frequentemente ai beaks, da posizionare preventivamente salendo i tiri in artificiale.
Dopo otto tiri si raggiunge il cosiddetto “White Circle”, un tratto di parete molto strapiombante, dove sono concentrate la maggior parte delle difficoltà. Qui, una vertiginosa successione di diedri liscissimi porta fino al celebre “Nipple pitch”, il tiro più famoso della via, nonché uno dei più difficili. Dopo altri due tiri molto strapiombanti (“The Mark of Zorro” e “Devil’s Brow”), le difficoltà diminuiscono e la via prosegue per evidenti diedri e fessure fino alla cima.
Dopo aver superato la prima parte, abbiamo montato il nostro portaledge all’inizio del “White Circle”, cominciando a lavorare i singoli tiri. Quelli chiave prevedono movimenti aleatori su prese quasi inesistenti, che richiedono condizioni meteo ideali per essere tenute (freddo, secco); così, per sfuggire al caldo, abbiamo sviluppato una nuova routine quotidiana: sveglia alle 4 per una sessione di arrampicata prima dell’arrivo del sole, riposo durante il giorno, e seconda sessione di scalata da dopo il tramonto fino a tarda notte, illuminando la parete con le frontali; incredibile come di notte la valle sia più calma e si amplifichino i rumori delle mani sulla roccia e di ogni singolo respiro.
Capire come passare i tiri chiave, “The Open Book” e “The Nipple”, con i loro appoggi pressoché inesistenti, è stato estremamente complesso, ma dopo averli saliti in top rope, ci siamo sentiti pronti per un vero tentativo dal basso.
Riposati, siamo tornati all’assalto della via, portando con noi cibo sufficiente per una decina di giorni (non volevamo terminasse come su “El Niño”).
Avremmo entrambi salito i tiri oltre il 7c da capocordata, alternandoci, invece, su quelli più semplici. Il primo giorno, nonostante il caldo, siamo riusciti a raggiungere la base del “White Circle” e a salirne il primo tiro difficile; da lì, abbiamo proseguito più lentamente, riposando durante il giorno e scalando di notte. La sera del quarto giorno eravamo già a pochi tiri dalla fine; rispetto alla parte centrale non era così difficile, ma visto che avremmo dovuto comunque dormire in cima, abbiamo preferito trascorrere un’ultima notte in parete, festeggiando sul portaledge. “Zodiac” ci aveva messo a dura prova dal punto di vista della tecnica, facendoci apprezzare la meraviglia di dover decifrare per ore i passaggi e di salire dei tiri al limite su una parete così immensa; ci eravamo innamorati ancora di più di questa disciplina.
Articolo su planetmountain.com Articolo su alpinist.com Videoracconto della spedizione